Valentina D’Amaro, S.T., 2004

25.03 – 15.05.2004

VALENTINA D’AMARO – Senza Titolo

La galleria di Antonio Colombo è lieta di presentare, per la prima volta nei propri spazi, la personale di Valentina D’Amaro. L’esposizione comprende una decina di nuove opere su tela, di grandi e medie dimensioni.
In questa mostra Valentina D’Amaro ritorna a dipingere dei paesaggi, si tratta, tuttavia di paesaggi diversi dai “senza titolo” realizzati negli ultimi due anni.
In quest’ultima serie l’artista presenta un paesaggio rarefatto, composto da pochi elementi di base. Si potrebbe quasi parlare di un paradossale ritorno al classico che aumenterebbe sicuramente la capacità di presa sul pubblico più tradizionale, se non fosse per alcune componenti fondamentali (soprattutto l’uso del colore e della composizione) che ci fanno sospettare di trovarci in presenza di una ricerca minimale, senza gesta o azioni clamorose, com’è tipico di tutto il lavoro di Valentina D’Amaro.
Alla nostra artista piace rinnegare le apparenze. Tanto gli altri suoi colleghi si impegnano a creare le “belle figure” altrettanto lei si impegna a cancellarne ogni retorica, andando dritto al dunque, facendo saltare ogni compromesso tra significato e significante. Con questi ultimi dipinti Valentina d’Amaro si spinge oltre compiendo un’operazione radicale, il soggetto è tenuto a debita distanza, l’artista elimina la presenza di cose e oggetti, ci presenta un paesaggio estraniato, una rarefazione completa che raggiunge la quintessenza del paesaggio.

Valentina D’Amaro: Nata nel 1966 a Massa (MS), vive e lavora a Milano. Mostre personali nel 2004 “Senza titolo”, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano, testo in catalogo di Gianni Romano; nel 2002 alla Galleria Kunstadapter, di Francoforte e nel 2001 alla galleria De March–Solbiati, Legnano (MI); con testo in catalogo di G. Romano. Nel 1999 da Nuova Artesegno, Udine, in collaborazione con Studio D’arte Cannaviello. Tra le mostre collettive, segnaliamo nel 2003 “Toscana picta. Giovane pittura toscana”, Istituto italiano di cultura, Lisbona, a cura di A. Romanini; “Colectiva”, Galeria Jorg e Shirley, Lisboa (Portugal); “La pittura come concetto”, Palazzo Ducale, Massa, a cura di L. Beatrice; nel 2002 “Premio Lissone”, Pinacoteca Civica, Lissone (MI), a cura di F. Gualdoni; “Faces and Places”, Biagiotti Arte Contemporanea, Firenze; “Contemporary portrait”, Torre medievale, Moggio Udinese, Udine, a cura di M. Di Marzio e di E. Santese; “301.302 kmq, paesaggio italiano attraverso la pittura”, Galleria Alessandro Bagnai, Firenze, a cura di L. Beatrice; “Four ways, le quattro vie del nuovo paesaggio contemporaneo italiano”, Galleria d’arte moderna e chiesa di S. Antonio Abate, Udine, a cura di L. Beatrice e P. Manazza; nel 2001 “Junge Italienische Malerai”, Galerie Binz&Kramer, Colonia; Galleria Fabjbasaglia, Rimini; Espace Ernst Hilger, Parigi; Galerie Ernst Hilger, Vienna; a cura di G. Romano; Premio “Cairo Comunication”, La posteria, Milano; “(Ultra)corpi”, chiostro di S.Agostino, Pietrasanta (LU), a cura di M.Sciaccaluga. Nel 2000 il Premio “Frisia”, Merate (Lecco), a cura di S. Fontana; “Sui Generis”, Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, a cura di A.Riva; nel 1999 “Aggiunte al catalogo, nuova pittura italiana negli spazi del museo”, Galleria d’Arte Moderna di Udine; “Neoiconica” Studio d’Arte Cannaviello, Milano, testo critico di G.Gigliotti; Museo d’Arte Paolo Pini, collezione permanente, Milano; “T.R.” ex ferramenta Todeschini, Faenza, a cura di M.Zauli; “Morbì, porto insicuro”, Mole Vanvitelliana, Ancona; “Memorie italiane” Guang Dong Museum of Art, Canton, Cina, a cura di E. Cannaviello, N. Dimitri, S. Fontana.

A Debita Distanza

di Gianni Romano

Quando si parla del lavoro di Valentina D’Amaro la domanda che mi viene rivolta più di frequente è “cosa c’entrano i paesaggi con i ritratti?”. A volte è lecito il sospetto che ai frequentatori del mondo dell’arte piaccia porsi le stesse domande e darsi le stesse risposte. Probabilmente è più di un secolo che gli artisti scrivono della scarsa importanza del soggetto in pittura. Cingolani, ad esempio, l’ultimo che mi viene in mente, ha inequivocabilmente affermato quanto segue: “ I lavori potrebbero vivere senza soggetto. Io lo sottolineo, perché mi piace, ma spero che i quadri possano vivere in sé, così come non conosco i titoli di Polke perché sono in tedesco, eppure li capisco come immagine. Voglio una pittura che possa parlare da sola.”
Una pittura che parla da sola era quella che Ed Ruscha esprimeva in un pastello del 1979 dipingendo delle lettere bianche su un fondo arancione: “I DONT WANT NO RETRO SPECTIVE”. Chissà se qualcuno gli ha mai chiesto cosa c’entrassero i suoi quadri monocromi con le fotografie in bianco e nero delle gasoline station, o gli acrilici delle stazioni di benzina con quelli delle montagne, e ancora, questi con i “Country Cityscapes” e tutto questo con le sue scritte su fondo monocromo o su banali immagini in secondo piano.
“La Parola”, scriveva Roland Barthes, “contiene simultaneamente tutte le accezioni di cui ha bisogno un discorso relazionale”. Anche la pittura appartiene a un sistema di relazioni che spesso indirizzano il significato verso risultati prevedibili. L’artista si ritrova spesso a distruggere e ricostruire gli elementi di questo discorso. La pittura, specie nella sua versione figurativa, illude il proprio pubblico con immagini che spesso sono tutto tranne ciò che appare. Allo stesso modo in cui i ritratti di Valentina D’Amaro mettevano in evidenza dinamiche e iconografia del gruppo più che del singolo personaggio o modella (un’estetica relazionale più che generazionale), questi ultimi lavori vanno certamente analizzati per quello che non mostrano immediatamente. Alla nostra artista – quest’ultima mostra lo conferma – piace rinnegare le apparenze, tanto gli altri suoi colleghi si impegnano a creare le “belle figure” altrettanto lei si impegna a cancellarne ogni retorica, andando dritto al dunque, facendo saltare ogni compromesso tra significato e significante. Così come nega l’apparenza, D’Amaro rinnega un’appartenenza, dipinge come solo le donne che hanno superato il postmoderno possono fare, reinventando la pittura. La pratica tradizionale viene così utilizzata senza sentire il bisogno di concettualizzarla, ma semmai livellandone i contenuti, falsando con quell’abilità pittorica che è riconosciuta all’artista (e che ci inganna perché inevitabilmente ci riporta a considerare i suoi quadri belli) percezioni, prospettive, campi di colore e di luce. Con questi ultimi dipinti Valentina D’Amaro si spinge oltre compiendo un’operazione radicale, il soggetto è tenuto a debita distanza, l’artista elimina la presenza di cose e oggetti, ci presenta un paesaggio estraniato, una rarefazione completa che raggiunge la quintessenza del paesaggio, per quanto non me la sentirei di affermare che questa sia la sua vera finalità.
“L’intenzione, già nell’opera, è proprio quella di non dire, di non spiegare, di non rivelare, di creare una sospensione, di spostare la comunicazione su altri piani” (Valentina D’Amaro).
Il motivo per cui in questi quadri non troviamo oggetti (se non una casa, cosi nascosta da sembrare una visione più che una descrizione) è che gli oggetti costringono lo spettatore a mettere a fuoco in un certo modo, a guardare l’insieme della composizione in relazione all’oggetto dipinto. La derivazione fotografica, evidente, contribuisce allo straniamento dell’immagine. Le successive velature di colore producono colori che sembrano il risultato di una manipolazione digitale (che tradiscono, in parte, la natura fotografica dell’immagine di partenza). Sembra chiaro che l’artista non abbia nulla da nascondere, che per lei la pittura sia comunque materia e colore, una testimonianza del matrimonio tra naturale e artificiale, qualcosa che impressioni i nostri sensi senza ricorrere all’effetto speciale.
Valentina D’Amaro, proprio perché interessata ad annullare la prospettiva tradizionale, privilegia un panorama scarno, privo di qualunque oggetto ben identificabile se non nel suo insieme (gli alberi).
Un oggetto, inoltre, sia esso familiare o meno, ci costringe ad inserirlo in un campo di significati e di relazioni, ma quando i suoi contorni si confondono, fino a sparire del tutto, allora il nostro sguardo torna libero, la percezione si spande a tutto campo su quelle finestre che per convenzione chiamiamo quadri, l’immagine diventa quasi astratta, luce e colore significano più di ogni dettaglio, un campo non è un campo, ma solo un concentrato di sensazioni che vuole tenere a debita distanza il banale quotidiano.

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