Mike Giant, Welcome To Frisco, 2010, Ink On Paper, 61×46 Cm

25.02 – 10.04.2010

MIKE GIANT – Welcome to Frisco

A cura di Silvia Girardi

Il 25 febbraio 2010 la Galleria Antonio Colombo inaugura Welcome to Frisco, la prima mostra personale dell’artista americano Mike Giant a Milano.
“Ho scelto il nome Giant mentre facevo skate con alcuni amici. Ad un certo punto faccio una brutta caduta e il ragazzo con cui sono mi dice: ‘Sei crollato come un gigante [giant in inglese]!’ e c’e’ un graffito proprio al di là del fossato dove stiamo facendo skate, e così penso: ‘Oh, questo potrebbe essere il mio nome!’. Ecco, è nato proprio così, per caso, e poi ho iniziato a usarlo come firma uno o due mesi dopo quell’episodio.” (Mike Giant)
Maestro del tratto in bianco e nero, nonché rappresentante di punta del movimento underground a San Francisco a metà degli anni Novanta, Giant è noto a livello internazionale per i suoi graffiti, skateboard, tatuaggi e per l’estrema precisione delle sue grafiche.
Nato in Upstate New York, Giant si trasferisce da bambino ad Albuquerque, New Mexico, dove più tardi studia architettura. Nel 1993 gli viene offerto un posto come disegnatore di grafiche presso la Think Skateboards a San Francisco. Lì trascorre i dieci anni successivi, sviluppando il proprio stile artistico e diventando figura di vertice nell’ambito della street art. Dapprima noto principalmente per i suoi graffiti, riconoscibili dall’uso di lettere massicce, nel corso dell’ultimo decennio si è fatto conoscere a livello internazionale anche per il suo lavoro di tatuatore. Dal 1998 Giant lavora presso importanti negozi di tatuaggi a San Jose, San Francisco e New York, vicino a Paco Excel, Mike Davis e Patrick Conlon. Il suo lavoro più recente si trova nel numero del 2004 della rivista Juxtapoz.
Nel 2003 Giant torna ad Albuquerque e apre il negozio di tatuaggi Stay Gold. Rientrato a San Francisco, nel 2007 si ritira ufficialmente dall’attività di tatuatore e si dedica ad un tipo di disegno più intenzionale, fortemente influenzato dalla meditazione buddhista. Nel febbraio 2002 Giant inaugura la sua prima personale alla WDWA Gallery di New York. Il suo lavoro è stato esposto a Tokyo con Sam Flores e Bigfoot, a Vancouver alla Misanthropy Gallery, a Parigi alla Magda Danysz Gallery, oltre che in numerose sedi a San Francisco e Los Angeles. I suoi disegni si trovano nell’ultima produzione di bici Cinelli e sull’abbigliamento di Tribal Gear, Upper Playground e Rebel8 – suo marchio di fabbrica. Della street scene di San Francisco dice Giant: “Prima di tutto sono un ‘vecchio hipster’ e mi sta bene. E dopo aver scritto graffiti per vent’anni, spero che questo movimento non finisca mai. Per quanto riguarda Ie bici da pista, è cent’anni che ragazzi e ragazze trendy e vanitosi le usano sulle strade di San Francisco! Facci caso. Niente di tutto ciò è passato di moda o è sepolto. Esistera’ sempre.”
Per questa eccezionale mostra milanese Giant ha realizzato un nuovo corpo di disegni originali e multipli in cui racconta storie di femme fatale di città che vanno in bicicletta e propone iconografie religiose e vedute urbane di San Francisco, oltre a qualche teschio superstite, inevitabile memento mori del mondo street. Un video in loop girato da Colin Arlen e Sean Patrick, amici e collaboratori di Giant, racconta la vita di Giant: lo vediamo in azione mentre pedala in giro per San Francisco, scrive su muri o su fogli bianchi e ne parla con parole sue…Una pacifica esplosione underground in bianco e nero.

Mike Giant è nato in Upstate New York nel 1971. Vive e lavora a San Francisco, California.
Mostre personali (selezione): 2010 Welcome to Frisco, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano; 2009 Galerie Magda Danisz, Parigi; 2008 White Walls Gallery, San Francisco, CA; 2007 Giant + Dalek (doppia personale), Galerie Magda Danysz, Parigi; 2006 Diary of a Madman, Best, Londra; Visions of Strength and Beauty, Colette, Parigi; 2005 Las Chicas de Burque, Lab101 Gallery, Culver City, CA; Mi Chica Sabrosa, Nomad, Toronto (Canada); Kundalini, The Erotic Museum, Los Angeles, CA; 2004 The Additive Method, Misanthropy Gallery, Vancouver; 2002 WDWA Gallery, New York; 2001 Heads of State, The Link Gallery, San Jose, CA.
Mostre collettive (selezione): 2006 Skulls, Wheels, and Ink, Outre Gallery, Melbourne (Australia); New Works by Mike Giant and Mike Davis, White Walls Gallery, San Francisco; Fecal Face, 111 Minna Gallery, San Francisco; Art of Hysteric, Hong Kong; 2004 Circle, Brooklyn Projects, Los Angeles; Juxtapoz 10th Anniversary, 111 Minna Gallery, San Francisco; 2003 Buck Funnies, Heaven Gallery, Chicago, IL; Career Day, MOCADC, Washington DC; 2002 BEAMS BEAMS Ts, Tokyo; Suits Made to Fit, Works Gallery, San Jose, CA; 2000 Applied Science, The Lab, Baltimora, MD; Sketch, Juice Gallery, San Francisco.

Silvia Girardi, dealer e curatrice italiana, lavora a San Francisco. Negli ultimi cinque anni ha presentato al pubblico americano il lavoro di artisti contemporanei internazionali, con particolare attenzione al rinnovamento della scena artistica italiana dell’ultimo decennio.

Mike dalla bravura Gigantesca

di Luca Beatrice

La notizia farà certamente piacere agli appassionati di cultura alternativa e del vero underground. Robert Williams, storico fondatore di Juxtapoz, teorico del Pop Surrealism e del Low Brow, autore della mitica copertina censurata per Appetite for Destruction, il primo album dei Guns and Roses (raffigurava un mostro volante che difendeva una ragazza stuprata da un robot), è stato selezionato da Francesco Bonami per la Biennale del Whitney che inaugura a New York proprio in questi giorni.
L’episodio non è da sottovalutare e segna un importante, ulteriore, passo avanti nella ridefinizione dei rapporti tra arte con la A maiuscola e le innumerevoli pratiche basse che hanno innervato di energia e stimolato la cultura di diverse generazioni. Rispetto all’Europa, l’America è certamente più rapida nell’eliminare inutili gerarchie tra cosa sta sopra e cosa sta sotto. In Disparities & Deformations. Our Grotesque (The 5th International Site Santa Fe Biennial, 2004-05) Robert Storr, ex direttore di una Biennale di Venezia alquanto noiosa, raffrontava la bizzarria dell’illustrazione e del fumetto in autori come Peter Saul, R.Crumb e Charles Burns con il particolarissimo neoespressionismo pittorico di Raymond Pettibon, Fred Tomaselli, Neo Rauch o con le videosculture di Bruce Nauman e Tony Oursler in cui dominano appunto il fuori registro, l’iperbole visiva, l’ipermetrofia e l’irrealismo. Caratteri marginali per la coolness dell’arte contemporanea che, per contro, hanno trovato asilo in altre forme non meno importanti ma destinate al sistema produttivo, tra cui ad esempio la grafica, l’illustrazione, il tatuaggio, il videoclip.
Stupisce quindi fino a un certo punto che una galleria d’arte decida di proporre in Italia la prima mostra personale di Mike Giant, nome di riferimento nella controcultura americana ma ancora poco conosciuto da noi (molto di più in Francia, ma oltralpe sentono una vera e propria devozione per argomenti simili). Detto per inciso, si tratta della stessa galleria che ha portato a Milano i disegni di Daniel Johnston e lavora abitualmente con il guru della psichedelia nostrana, Matteo Guarnaccia, indizi che spiegano la particolare sensibilità di Antonio Colombo verso forme visive autentiche, eterodosse, non ancora colonizzate dal museo e dal sistema.
E’ divenuto ormai leggendario il segno in bianco e nero di Giant, che trasferisce dalla carta al tatuaggio, dalla customizzazione di skateboard ai graffiti e alla street art. Nel suo sito www.mikegiant.com troverete anche una sezione dedicata alle fotografie, non poi così dissimili dallo stile snapshot che imperversava negli anni Novanta, ma si capisce che questo è soltanto un passatempo, un modo per distrarsi dalla concentrazione che il lavoro manuale impone.
L’arte di Giant, infatti, solleva un problema non da poco, il che rappresenta una questione “bollente” nel dibattito contemporaneo. Nonostante il contesto si ostini a tenerlo in vita, minimalismo e derivati stanno giocando le loro ultime partite. Per decenni siamo stati abituati a considerare unicamente valida quell’arte che riduceva alle estreme conseguenze l’apporto creativo e l’abilità nel fare. Bisognava limitarsi al progetto, delegare, produrre in serie elementi oggettivi e neutri, in linea con quel gusto design che ha riempito appartamenti e uffici di oggetti identici e impersonali. Anche la pittura e il disegno, per sperare di esistere, si sono dovuti ripiegare su scialbe esecuzioni dal fondo bianco, mortificando l’estro e l’abilità tecnica dell’esecutore.
Mike Giant è bravissimo, è un numero uno, se ne accorge chiunque possieda quel minimo di occhio non viziato da convenienze e abitudini. Un talento equiparabile sia all’artista che all’artigiano, perché l’arte è l’esatto punto d’incontro tra i due e, bisogna affermarlo con vigore, uno che non abbia capacità tecnica, consapevolezza del mezzo, dominio del linguaggio non dovrebbe essere inserito né nell’una né nell’altra categoria. Se davvero fosse così, metà delle opere esposte nelle collezioni dei musei dovrebbero finire nella spazzatura.
Questo dibattito è stato anticipato da un saggio, uscito nell’autunno 2008, L’uomo artigiano di Richard Sennett. Sociologo, docente alla New York University e alla London School of Economics, Sennett sostiene che la vecchia figura dell’homo faber, colui che sa fare con le proprie mani grazie a una perizia e una conoscenza non comuni, è la salvezza contro la mediocrità del “basta che sia fatto”, contro il diktat per cui nelle accademie e nelle scuole d’arte non si deve insegnare la perizia tecnica ma solo la speculazione pura disgiunta dall’oggetto finito. Oscillando tra presente e passato, Sennett racconta storie affascinanti di antiche botteghe di pittura dove si sono formati i geni del Rinascimento, laboratori del legno in cui operavano gli intagliatori degli Stradivari, saltando al presente delle cucine, fertili di inventiva e sperimentazione, e degli informatici, capaci di mettere a punto programmi sofisticatissimi, altrettanto creativi e “manuali”. Unico filo che li lega, il talento, termine mortificato dall’ideologia teorica che, soprattutto nell’arte, ha dato la stura a migliaia di impostori e incapaci.
Per Sennett l’artista è prima di tutto un artigiano cui sta a cuore il lavoro ben fatto in sé. Anziché in asettici atelier popolati da assistenti al computer, torna alla bottega del falegname, circondato dai suoi apprendisti e dai suoi arnesi. Torna il criterio valutativo delle ore di lavoro, perché i tempi lunghi impreziosiscono l’opera finita. “Voglio indagare”, scrive Sennett, “che cosa succede quando viene introdotta una separazione tra mano e testa, tra tecnica e scienza, tra arte e mestiere. Mostrerò come in questo caso sia la mente a soffrirne; intelligenza e capacità espressiva ne vengono entrambe compromesse”.
Il disegno non fa eccezione, anzi di fronte alle centinaia di fogli sciatti che intasano le mostre internazionali, la grafica di Giant rivela un “gigante” del segno, abitatore di quelle terre californiane dove la pittura ha cercato, trovandole, energia, forza, ispirazione, innovazione nell’alveo, dove conta soltanto il talento manifestato in qualcosa di tangibile: un dipinto, un disegno, una scultura, qualsiasi cosa basta che sia evidente la bravura “manuale” di chi la firma.
Può essere dunque che un illustratore, un customizzatore di motociclette o un tatuatore (sì, il termine non è eccezionale ma non trovo di meglio) sia più bravo di un pittore di galleria? Sì, può essere. Nel caso poi di Mike Giant non ci sono proprio dubbi. La qualità del suo lavoro è eccelsa e indiscutibile, proprio come nel caso del maestro Robert Williams.
Infine mettiamoci la capacità che queste immagini hanno di esaltare i nostri sentimenti più autentici. Segni che trasudano America, Rock and Roll, Machismo, Cadillac, Harley Davidson, donne tante donne.
L’arte è un sogno, e quando sogno mi piace sognare da eroe.

SILVIA GIRARDI intervista MIKE GIANT

La tua arte parla di stile di vita, sesso, religione…I tuoi disegni sono sensuali e “puri”. Quando nelle tue opere il segno diventa simbolo qual è il messaggio che vuoi trasmettere?
Non credo nei miei lavori ci sia sempre un contenuto. Penso che ogni disegno abbia in sé un messaggio diverso. Il messaggio è ora scontato, ora nascosto. A volte il messaggio è l’aspetto più importante dell’opera, altre volte mi interessa solo realizzare immagini belle che non contengano alcun messaggio. Nel quotidiano mi preme soprattutto divertirmi mentre sono in studio piuttosto che puntare su un particolare messaggio o programma.
Hai iniziato a fare graffiti nel 1989, poi sei diventato tatuatore nel 1998. Oggi ti dedichi principalmente al disegno su carta. Ti senti mai limitato dal mezzo espressivo che usi? Come riesci a reinventarti sempre disegnando nero su bianco?
Mi piaceva disegnare su carta con i pennarelli ancora prima che imparassi a camminare. Disegnare soprattutto in bianco e nero mi è venuto abbastanza naturale nel tempo. Ad oggi, più di tutto mi piace disegnare con gli indelebili neri. Ammetto che mi sentirei limitato se facessi solo disegni su carta. Ecco perché mi vedi ancora disegnare sui muri con lo spray, fare foto e fare tatuaggi. Tra tutti questi mezzi di espressione mi sembra di aver trovato un buon equilibrio nella mia pratica artistica. Ciascuno di essi nutre gli altri.
Non mi pare ci sia molto spazio per la reinvenzione nei miei disegni in bianco e nero. Mi sembra che quello stile sia ormai definito abbastanza bene e posso lasciarlo libero di esprimersi. Si evolverà al suo ritmo come ha sempre fatto.
Con il passare degli anni mi sono sentito più che mai libero di giocare con i cambiamenti stilistici nei miei graffiti. Oggi, quando mi metto davanti a un muro, non so che aspetto avrà il lavoro. Entro nel flusso creativo e lascio che il mio stile si reinventi da solo senza pressioni o vincoli di alcun tipo.
Che rapporto c’è fra la tua arte e il mercato?
Nel mondo dell’arte e dell’illustrazione commerciale cerco di farmi aiutare da persone fidate nella gestione dell’aspetto economico del mio lavoro, così io posso concentrarmi sull’aspetto creativo. Fondamentalmente detesto avere a che fare con il mercato. Fare affari e negoziare con i clienti a volte fa schifo. Aspettare gli assegni fa schifo. A me piace solo disegnare.
Mi piacerebbe che tutte le mie transazioni avvenissero con la stessa immediatezza che c’è nel lavoro di tatuatore. Fai il tatuaggio e vieni pagato in contanti sul momento. Niente tasse, niente palle. Mi piace un sacco.
Come fai a mantenere il rapporto con il tuo pubblico, con il suo mondo, i suoi bisogni, i suoi sogni; riesce il pubblico ad influenzare la scelta delle tue immagini?
Finché il lavoro artistico procede sono troppo impegnato a cercare di articolare e comprendere le mie necessità e i miei sogni personali per preoccuparmi più di tanto di quelli del mio pubblico. Ho la sensazione di aver sempre cercato di parlare dal punto di vista della mia esperienza personale nel mio lavoro. Coloro che capiscono da dove vengo sono il mio pubblico. E, fortunatamente per me, il sostegno del mio pubblico mi ha dato la libertà di scavare ancora più a fondo nella mia esperienza personale e poi condividere con loro quello che scopro.
Ti ho sentito parlare a lungo di consapevolezza e processo artistico. Il tuo stato mentale e fisico ti consente di essere maggiormente consapevole del flusso creativo e quindi conferire al tuo segno un contenuto più autentico e originale?
La consapevolezza mi ha certamente dato la capacità di rimanere maggiormente connesso al flusso creativo. Sento che praticare la consapevolezza mi ha sempre aiutato ad essere più conscio anche dell’importanza della salute fisica. La meditazione e la consapevolezza mi hanno aiutato a vedere la vita così com’è, non come una costruzione concettuale della mia mente pensante. E quando posso lavorare da quello spazio di aperta consapevolezza, quasi sempre ottengo risultati più autentici e originali.
Cosa rappresenta una sfida per te?
Cercare di essere il cambiamento che spero di vedere nel mondo.
Cosa è importante per te?
Cercare di essere il cambiamento che spero di vedere nel mondo.

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