27.05 – 16.07.2004
THE BLACK ALBUM
A cura di Luca Beatrice
Se il celeberrimo White Album dei Beatles, uscito nel 1968 senza titolo e senza immagini in copertina (in realtà disegnata dall’artista pop inglese Richard Hamilton), è diventato per la sua essenzialità sinonimo di concettualità, i vari Black Album che sono comparsi sulla scena del rock parlano invece di una visione sporca e oscura della realtà, talora eccessiva e parossistica, altre volte malinconica ed esistenziale. Mitico fu il Black Album dei Metallica (1991), bibbia di due generazioni di metallari, ma non si può certo dimenticare il preveggente Back in Black degli AC/DC (1980), o, in tutt’altro contesto, The Black Album di Prince (1994) che ispirò un romanzo ad Hanif Kureishi.
Tra blackitude e blackness sta questo progetto di mostra cui sono stati invitati oltre venti artisti, internazionali e italiani, giovani e affermati, con opere diversamente ispirate dai suoni scuri e oscuri, che inseriscono all’interno della propria poetica elementi dalle culture alternative e antagoniste, come il fumetto, i tatuaggi, il piercing, i fumetti, i graffiti, lo skate e la bicicletta. Ritratto di un mondo rumoroso per immagini.
Sarà disponibile in galleria il catalogo con testi critici di Luca Beatrice, Matteo Guarnaccia, Marco Rainò.
Gli artisti:
Abbominevole
Philip Hipwell
Robert Pettena
Davide Bertocchi
Scott King
Raymond Pettibon
Marc Bijl
Thorsten Kirchhoff
Luigi Presicce
Bloody Riot – Roberto Perciballi
Andrea Mastrovito
Prof. Bad Trip
Botto & Bruno
Bjarne Melgaard
Bernardi Roig
Claudio Di Carlo
Bartolomeo Migliore
Christian Schumann
Nicola Di Caprio
Joan Morey
Gabriele Sedda
Claudia Grassl
Ozmo
Georgina Starr
Matteo Guarnaccia
Erik Parker
Ed Templeton
Leeta Harding
Maurizio Vetrugno
BACK IN BLACK
I giubbotti dei Ramones
Per molti della nostra generazione il 1977 fu un anno cruciale. Tutto sembrò accadere in quei dodici mesi che segnarono profondi cambiamenti. L’onda nuova investì la sensibilità politica (ci fu chi aderì in pieno alle cause del movimento, chi visse in prima persona le drammatiche contraddizioni del terrorismo e chi, invece, cominciò a chiamarsi fuori), ma soprattutto quella estetica che passava, inevitabilmente, per domande tipo “come ti vesti” e soprattutto “che musica ascolti”.
I primi anni ’70 furono dominati dal colore e dalla luce: i colpi di coda della psichedelica, i lustrini del glam rock e i travestimenti di David Bowie, il trionfo del pop sinfonico, romantico, le sue contaminazioni con il progressive, furono tutti segnali di una profonda necessità dell’apparire che segnava, allo stesso tempo, il distacco tra la star sul palco e i suoi fans. Tutto questo accadeva oltre Manica (era l’Inghilterra il punto verso cui guardare, più dell’America che pure aveva inventato il rock’n’roll) mentre da noi, in Italia, si ascoltavano i cantautori (imposti dalla sinistra storica che difatti di musica ha sempre capito poco), versione engagée del festival di Sanremo.
Del 1977 ricordo come fosse ieri: la grafica di Jamie Reid per le copertine dei Sex Pistols; l’uscita del primo album dei Clash; ma soprattutto i giubbotti di pelle nera dei Ramones. Spesso si discute su chi fosse stato il vero innovatore, colui (o coloro) cui attribuire il ruolo decisivo nel Punk – al trio iconoclasta Rotten – McLaren – Westwood con l’aggiunta maledetta di Syd Vicious? ai tanti gruppetti dell’ala movimentista Oi! dove si incontravano teste rasate e creste multicolori? al filone oscuro ed esistenziale sfociato poi nel dark, un gusto che di fatto ancora continua?- eppure almeno per quel che mi riguarda i Ramones hanno sintetizzato alla perfezione un modo possibile di essere punk, percorribile da qualsiasi teenager che non era così costretto a cambiarsi rapidamente d’abito prima di rientrare in famiglia on sul lavoro. Jeans vecchi e t-shirt bianca, giubbotto di pelle, capelli lunghi, occhiali neri e scarpe da ginnastica vissute (le “Superga marce” le chiama Giuseppe Culicchia nel suo ultimo romanzo Il paese delle meraviglie che racconta una storia del ‘77). Autori di un rock’n’roll così orecchiabile quanto irresistibile, i Ramones sono stati tra i principali responsabili della discesa nel nero di moltissimi ragazzi. Per poi scoprire che nel nero si sta bene sia dal punto di vista esistenziale che estetico, e infatti si continua a usare sul palco e nella vita di tutti i giorni.
And Into the Black
“Out of the Blue and Into the Black” biascicava Neil Young in una delle sue canzoni più belle My, My, Hey, Hey con la voce di un cane che abbaiava alla luna (l’immagine non è mia ma del critico musicale Cameron Crowe, in seguito regista di Almost Famous e Vanilla Sky). L’anno era sempre il ’77: Neil Young, pur non essendo certo un punk aveva capito dove stava la nuova energia del r’n’r e dedicò questo pezzo a Johnny Rotten. Fuori dal blu e dentro al nero. La moda del nero ormai imperversava sui nostri abiti, e la mania di farsi ognuno il proprio disco nero cominciò a diventare una reale esigenza. Tutti conoscono la storia del White Album dei Beatles, e per chi non la ricordasse rimando al testo di Matteo Guarnaccia. Il bianco, l’assenza di immagini in copertina, il solo logo del gruppo impresso a secco volevano significare l’aspirazione concettuale e quindi artistica della più famosa pop band del mondo. A John Lennon, che aveva conosciuto Yoko Ono, non bastava più esserne il leader carismatico, ci voleva quel salto di consapevolezza intellettuale necessaria per diventare un artista. La famosa copertina progettata da Richard Hamilton si sposa con il trend dell’arte concettuale, allo stesso modo in cui i caratteri delle scritte di Joseph Kosuth oppure gli spazi bianchi metafisici di Giulio Paolini definiscono immediatamente il dominio dell’intelletto, del pensiero, del processo, del raziocinio. Se i primi anni ’70 sono stati gli anni di numerosissimi album bianchi, il punk rivolta la frittata con le sue mani sudice, la grafica fanzinara, gli abiti usati. Come chiamare, se non punk, i disegni di Raymond Pettibon un misto di sottocultura e della storia inquieta dell’Altra America? E le prime installazioni video di Tony Oursler,
amicissimo di Thurston Moore e Kim Gordon con cui aveva condiviso le aule di lezioni alla CalArts di Valencia, California? E i pupazzetti di Mike Kelley che usava per le sue installazioni materiali di scarto e trash, ormai esclusi dal ciclo produttivo del capitalismo.
Forse non è mai esistita un’arte punk, a meno che non si voglia –come ha suggerito Greil Marcus- rintracciare in Dada e nel Situazionismo le radici di quell’atteggiamento provocatorio fine a se stesso che il punk ha esasperato, ma è altrettanto vero che negli stessi anni il punk è entrato nell’arte attraverso il nero e da lì non se ne è più andato.
The Black Album
Questa mostra è un omaggio al lato oscuro, più viscerale e meno “intelligente”, più materiale e meno sublime del r’n’r che si sintetizza nell’immagine del Black Album, una copertina da prendere con le mani sporche senza prestarle quell’attenzione supplementare e quella delicatezza necessaria invece al bianco. Logico che a usare monocromi neri siano stati soprattutto gruppi o autori immersi nella Blackness, insieme condizione estetica e stato d’animo. Ricordo il bellissimo Back in Black degli AC/DC, qualcosa di più che semplici metallari, che suonavano un intenso blues urbano annunciandosi con campane infernali. I Metallica hanno realizzato con il loro Black Album il monumento all’heavy metal, ancora fondamentale in qualsiasi discografia che si rispetti. Ma, in generale, dai Joy Division ai Bauhaus, dai Cure ai Jesus and Mary Chains, dai Suicide ai My Bloody Valentine (giusto per citare alcune tra le band imprescindibili nella mia formazione culturale) il nero avvolge ogni cosa di tristezza espandendosi sui vestiti e diventando presto un uniforme visiva e mentale.
La questione del nero (e della sua rappresentazione) non si esaurisce però né con il post punk né con il dark. Alla fine degli anni ’50 quando la Blackitude (il colore della pelle) comincia ad avvertirsi come un problema non di semplice soluzione, qualcuno comincia a incazzarsi sul serio contro l’immagine ed edificante del nero buono e del bianco tollerante che il cinema hollywoodiano e la letteratura scolastica fanno passare. Non era forse un proto punk quel Ralph Ellison, autore di Uomo invisibile, che diceva: il mondo non mi vede perché sono nero come la notte, dunque invisibile ai più? Non era forse punk un ragazzino metà haitiano e metà di Brooklyn che disegnava i muri di Manhattan firmandosi SAMO (Same Old Shit), che guadagnò in un lampo un successo strepitoso come Jean-Michel Basquiat, bruciò un sacco di soldi e si schiantò con l’eroina proprio come il vecchio Syd?
Black President
Hanif Kureishi ha intitolato The Black Album uno dei suoi primi romanzi, ambientato nei suburbi di Londra dove convivono, non senza difficoltà, le famiglie di immigrati asiatici (pakistani e indiani) e il sottoproletariato inglese. L’ispirazione (lo ha detto più volte nelle interviste) gli venne da The Black Album, il disco con cui Prince, all’epoca l’unica vera star della Black Music, cominciò a ribellarsi al sistema ricattatorio delle major, decidendo di produrre un album praticamente introvabile, stampato in poche copie e distribuito attraverso la rete di fans club. Non è forse punk il disprezzo del proprio ruolo pubblico, il farsi beffe delle convenzioni al punto di rinunciare, al culmine della carriera, al proprio nome per nascondersi dietro una misteriosa, impronunciabile sigla?
Il germe autentico della ribellione ce lo siamo inoculato anche per moda: altri sono quelli venuti al mondo e cresciuti con la necessità di mandare tutto all’aria. C’era una volta il sacerdote del Black Power, un musicista che ha influenzato molti giovani e creato una vera e propria corrente Afro senza la parte più folk e ingenua, e nel frattempo continuava a far politica richiamando decine di migliaia di persone ai suoi concerti, che fossero in Africa, in America o in Europa. Si chiamava Fela Anikulapo Kuti, il primo autore di musica non occidentale ad aver ricevuto l’omaggio monografico di un museo d’arte contemporanea, il New Museum l’anno scorso a New York.
Dimenticavo, i punk di tutto il mondo lo adorano…