Arduino Cantafora, La Città Banale, 1980, Olio Su Tela, 200×400 Cm

3 giugno – 24 luglio 2015

LA FAMOSA INVASIONE DEGLI ARTISTI A MILANO

A cura di Luca Beatrice e Ivan Quaroni

In un momento topico per Milano, per la seconda volta sede dell’Expo Universale dopo la storica edizione del 1906, artisti, designer e writer sono chiamati a interpretare, attraverso le loro opere, splendori e miserie di una città in continua evoluzione. Terra di mezzo della pianura subalpina e luogo di transito tra il mediterraneo e il continente europeo, Milano ha sempre rivestito un importante ruolo di crocevia di culture, segnando, con la sua crescita, il passo della Storia. Fondata dai Celti nel IV secolo a.C., la città circondata dai fiumi Olona, Lambro e Seveso, già capitale dell’Impero Romano, del Regno Longobardo e della Repubblica Cisalpina, fu non solo uno dei luoghi simbolo del Risorgimento, ma anche l’epicentro del Movimento Futurista e della Rivoluzione Industriale.
Nel Novecento Milano è stata un luogo di radicali trasformazioni socio-culturali, un’officina del pensiero e dell’arte contemporanea, dal Ritorno all’Ordine del Novecento fino alle sperimentazioni ottiche e cinetiche di Azimuth e del Gruppo N. All’ombra della Madoninna è, inoltre, cresciuto il mito della città sobria e operosa, ma anche quello della Milano da Bere degli anni Ottanta che divenne l’emblema dell’edonismo. Centro nevralgico per la moda e il design, Milano è oggi una città globale, terza urbe europea per estensione, dopo Londra e Parigi, e più visitata città italiana.
Mentre l’Expo affronta un tema di vasta portata, come la questione delle risorse agroalimentari, questa mostra s’interroga sull’odierna identità della città che la ospita. Ci si domanda, infatti, se alla medianità geografica e territoriale che Milano reca nel suo stesso toponimo (Mediolanum – terra di mezzo) corrisponde ancora un ruolo centrale e strategico. Nessuno più degli artisti, è in grado di compiere tale valutazione, proprio perché le loro visioni, in bilico tra fantasia e cultura di progetto, tra nostalgia e utopia, sono le sole in grado di dare finalmente un volto e un’immagine a una realtà dinamica, in costante evoluzione.
La mostra, ispirata al titolo di un noto racconto di Dino Buzzati (La famosa invasione degli orsi in Sicilia) è suddivisa in due sedi espositive, la Sala delle Colonne alla Fabbrica del Vapore e la galleria Antonio Colombo Arte Contemporanea di via Solferino.
Attraverso un confronto tra le opere di artisti e designer affermati (la cui attività può essere in vario modo ricondotta a Milano) – da Marco Cingolani ad Alessandro Mendini, da Salvo a Toni Thorimbert, fino a Giovanni Frangi e Aldo Damioli – con artisti e street artisti emergenti, La famosa invasione degli artisti a Milano intende scandagliare le diverse anime della città in una dimensione spazio-temporale aleatoria, che alterna passato e presente, sogno e realtà, cultura alta e bassa, per ricostruire, nel bene e nel male, l’identikit di una città sempre più prismatica e inafferrabile.

Periodo mostra:
Dal 3 giugno 2015 al 24 luglio c/o Antonio Colombo Arte Contemporanea
Dal 3 giugno 2015 al 27 giugno c/o Sala delle Colonne – Fabbrica del Vapore

Opening: 3 giugno 2015 ore 18.00 / 21.00 (fino alle 23.00 c/o Fabbrica del Vapore)

Indirizzi:
ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA – Via Solferino 44 – MILANO
orario mostra: martedì/venerdì 10 / 13 e 15 / 19 – sabato 15 /19
SALA DELLE COLONNE c/o FABBRICA DEL VAPORE – Via Procaccini 4 – MILANO
orario mostra: martedì/sabato 14/19

Artisti
108 | Aka B | Silvia Argiolas | Anthony Ausgang | Atelier Biagetti | Walter Bortolossi | Arduino Cantafora | Gianni Cella | Andrea Chiesi | Marco Cingolani | Clayton Brothers | Vanni Cuoghi | Aldo Damioli | Paolo De Biasi | Dem | Nathalie Du Pasquier | El Gato Chimney | Marco Ferreri | Enzo Forese | Giovanni Frangi | Daniele Galliano | Massimo Giacon | Alessandro Gottardo | Matteo Guarnaccia | Giuliano Guatta | Ryan Heshka | Hurricane | Massimo Kaufmann | Memphis – Galleria Post Design | Alessandro Mendini | Fulvia Mendini | Valerio Melchiotti | Olinsky | Tullio Pericoli | Marco Petrus | Giuliano Sale | Andrea Salvino | Salvo | Marta Sesana | Squaz | Fred Stonehouse | Toni Thorimbert | Mark Todd | Paolo Ventura | Nicola Verlato | Esther Pearl Watson | Zio Ziegler

Curatori
Luca Beatrice
Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino, dove vive e lavora. Critico d’arte docente all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero dal titolo Zero (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E’ autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli) e realizzato Gli uomini della Signora (Dalai 2011). Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Pop. L’invenzione dell’artista come star e nel 2013 Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. A fine 2014 è uscita per Barney la raccolta Write on the Wild Side. Articoli di critica militante 2007-2014, mentre nel marzo del 2015 ha pubblicato il suo ultimo saggio Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi. Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sulle riviste Arte e Riders. E’ presidente del Circolo dei Lettori di Torino.

Ivan Quaroni
Critico, curatore e giornalista, ha collaborato con le riviste Flash Art e Arte. Nel 2008 ha pubblicato il volume Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura (Johan & Levi editore, Milano). Nel 2009 ha curato la sezione «Italian Newbrow» alla IV Biennale di Praga. Nello stesso anno è stato tra i curatori di «SerrOne Biennale Giovani di Monza». Nel 2010 ha pubblicato il libro Italian Newbrow (Giancarlo Politi editore, Milano). Nel 2012 ha pubblicato il libro Italian Newbrow. Cattive Compagnie (Umberto Allemandi, Torino). Nel 2012 cura la Biennale Italia – Cina alla Villa Reale di Monza. Ha, inoltre, curato numerose mostre in spazi pubblici e gallerie private, scrivendo per importanti artisti, tra cui Allen Jones, Ronnie Cutrone, Ben Patterson, Victor Vasarely, Alberto Biasi, Aldo Mondino, Turi Simeti, Paolo Icaro, Marco Lodola, Salvo e Arcangelo. In Italia è tra i primi a scoprire e divulgare il Pop Surrealism e la Lowbrow Art americana, scrivendo su artisti come Gary Baseman, Clayton Bros, Eric White e Zio Ziegler. Dal 2009 conduce seminari e workshop sul sistema dell’arte contemporanea e, parallelamente, svolge un meticoloso lavoro di talent scouting nell’ambito della giovane pittura italiana.

Appunti di un pendolare

di Luca Beatrice

Le prime volte che da Torino prendevo il treno per Milano era la fine degli anni Settanta e l’alta velocità era un’idea fantascientifica, da cartone animato della serie Pronipoti. I vagoni erano di legno o di plastica marrone sporca e danneggiata, ma si poteva tranquillamente fumare quasi dappertutto e quindi l’odore era acido e penetrante. Ci volevano due ore buone, ritardi esclusi, per percorrere 140 km, poi sceso a Stazione Centrale appariva ai miei occhi qualcosa che nella mia città si sarebbe realizzato molti anni dopo: la metropolitana. Già allora bastavano pochi minuti per arrivare in piazza Duomo, risalire in superficie un po’ spaventati dalla quantità di gente, per poi dirigersi o verso via Torino a cercare i punk, un gruppo piuttosto pittoresco e molto più estremo di quelli che potevi trovare sotto la Mole, con creste multicolori, spille tra le labbra e giubbotti ricchi di spillette e accessori vari. Oppure andare in corso Vittorio Emanuele davanti al negozio Fiorucci, che noi una cosa del genere proprio ce la sognavamo. Sono convinto che Elio Fiorucci sia stato tra i più profondi innovatori culturali del nostro paese: ha inventato una via diversa alla moda, ha sdoganato il colore, ha portato a Milano lo spirito del mitico Studio 54 e quello della Pop Art. E’ grazie a persone come lui che una generazione di ragazzi ha cominciato a dire no al terrorismo, basta con la pesantezza degli anni di piombo, e anche io mi sono sentito preso da quella temperie, la voglia di tornare per le strade, sfoggiare abiti meno tristi e più creativi, superare un periodo di tensioni che proprio non ci apparteneva. Ma qui il discorso sarebbe troppo lungo.
Altro motivo di gita a Milano, fin da quei tempi lì, era la doppia trasferta annuale della mia Juventus contro Milan e Inter. Scendere i gradoni di San Siro significava entrare subito in una dimensione di gigantismo sconosciuto a noi frequentatori del Comunale. Poco importa che Torino, negli anni Settanta, fosse città calcisticamente ben più rilevante di Milano, merito persino dei granata: la Scala del football era comunque l’impianto dedicato a Peppin Meazza cui noi ci affacciavamo sempre con un certo timore reverenziale sollecitato ben più dal luogo che non dai protagonisti. Solito vizio dei torinesi, sentirsi a disagio oltre le Porte Palatine…
Luogo comune ci vuole, noi torinesi, assaliti dal complesso di inferiorità nei confronti dei (quasi) cugini milanesi. Tanto Milano è aperta, veloce, accogliente e tutto sommato indifferente, così Torino è chiusa, familistica, lenta, diffidente, falsa oltre che cortese. Si dice però che a Torino sia da sempre in atto una vocazione sperimentale, da città laboratorio di idee che a Milano poi prendono, perfezionano e vendono meglio. Tipico di chi soffre il complesso di inferiorità, a Torino dicono che Milano si “prende le nostre cose”, anche se di fatto non è proprio così. Venendo invece all’arte, Milano si è sempre contraddistinta per una fitta rete di gallerie (le migliori d’Italia) e per aver attratto gli artisti più significativi da tutta la penisola, però ancora non ha un museo pubblico dedicato solo al contemporaneo, mentre Torino ha di contro prodotto più musei che artisti, puntando sulla politica dell’intrattenimento e del turismo, costretta a una trasformazione così repentina da crollo, erano gli anni Novanta, del sistema monocratico della grande industria, familiare pure quella. E se Torino, al culmine del suo splendore, ha ospitato le Olimpiadi invernali del 2006, oggi Milano è sede dell’Expo, e dunque figura come unica città in Italia in grado di trainare un’auspicabile ripresa economica. Sotto la Madunina si respira davvero voglia di nuovo, le strade pulsano, l’energia finalmente tornata. Può essere che la crisi ce la siamo davvero lasciata alle spalle?
Però intendiamoci, io sono tra i pochi torinesi cui piace Milano. Anzi, la ama molto, la invidia un po’ e in fondo vorrebbe viverci, per via non solo delle opportunità di lavoro e delle mille idee che possono prendere forma velocemente anche nei contatti occasionali. Però resta a Torino perché oggettivamente più bella e malinconica, riservata e struggente, con un rapporto unico qualità-prezzo sugli immobili, assai meno costosa e poi non così lontana, soprattutto se si viaggia in treno.
Per cercare di stare meglio, a Milano devo venire molto spesso, una volta la settimana almeno, non stancandomi di recitare quel ruolo da pendolare che per una decina d’anni ho svolto con regolarità, avendo scelto di insegnare all’Accademia di Brera, nonostante abitassi di nuovo a Torino dopo un trascorso romano. Non una scuola come tutte le altre, ma con un nome altisonante di cui la città va fiera, dove più o meno sono passati tutti quei colleghi critici d’arte che sono stati capaci di combinare qualcosa di interessante.
Quegli anni, che onestamente ogni tanto rimpiango anche perché ero molto più giovane di ora, mi hanno dato la possibilità di dare un’accelerazione al mio lavoro attraverso i rapporti con diversi artisti e galleristi conservati nel tempo, più o meno intensamente. Sono certo che citarne alcuni significherà fare un torto ad altri, però ad esempio Marco Cingolani e Massimo Kaufmann sono stati autentici “compagni di strada” per un lungo cammino, e infatti bene o male con loro ci si ritrova sempre. Siamo coetanei però quando li ho conosciuti loro erano più affermati di me, rappresentando il meglio di quella “scena emergente” cui si guardava, già dalla fine degli anni Ottanta, con curiosità e attenzione. Marco fin dall’inizio è stato gioviale, bonario e accogliente, Massimo all’inizio piuttosto sulle sue e altezzoso, ma proprio per questo straordinariamente simpatico (io adoro persone come lui che in genere non riscuotono consensi unanimi perché non praticano il paraculismo quale tecnica di benevolenza).
Era abitudine in quegli anni, molto più che ora, di saltellare per gallerie, e in effetti da provinciale torinese venire a Milano significava respirare un’aria diversa, un’aria giovane e disinvolta che ti faceva pensare all’arte si, ma anche ai soldi, mentre da noi a Torino chi è ricco (e ce ne sono davvero tanti) non ostenta in nome di un understatement diventato codice comportamentale che in altre zone d’Italia non sopportano e fanno pure bene. Ecco, in una di queste gite di piacere e di lavoro ho conosciuto Antonio Colombo e la storia tra noi è durata talmente tanto, andando così bene senza mai uno scazzo (quasi un record), che periodicamente ci si ritrova qui, lui a ideare nella sua mente così convulsa e inseguita dall’horror vacui – basti pensare all’interminabile lista di questa mostra work in progress – io a tentare di scrivere testi e a cucire le sue intuizioni, stavolta insieme all’amico Ivan Quaroni, che se non si offende ritengo un po’ un mio discepolo. In via Solferino 44, a due passi dal Corriere, altra ragione di sindrome del provinciale per noi torinesi abituati a leggere La Stampa, confidenzialmente soprannominata La Busiarda, ne è passata di gente che un po’ ha fatto la storia dell’arte di Milano e non solo. Antonio, con movimenti rabdomantici e dinoccolati esattamente come ora che si dedica pervicacemente a mezzi matti californiani, non ha mai applicato logiche né strategie. Molto semplicemente fa quello che vuole e che gli piace, prendendosi cotte allucinanti e spesso disamorandosi con la stessa rapidità, perché solo a Titti lui resta fedele. Ogni tanto mette in atto una nuova rivoluzione copernicana, butta tutto all’aria, lasciando sul campo di battaglia morti e feriti. Gli resiste il suo alterego, Aloisia Resch, insieme giocano al poliziotto buono-poliziotto cattivo. Lavorano fianco a fianco da una vita eppure si danno ancora del lei. Irresistibili. Ah, tra l’altro Aloisia è fidanzata con quel tipaccio di Carlo Benvenuto, Dio gliene renderà merito, spero.
Di tutti quelli che sono passati da queste parti ne vorrei ricordare qualcuno, tipo Andrea Salvino che frequentavo a Roma negli anni Novanta e che in effetti allora passava come una promessa della pittura italiana seppur frenato dall’ambiente molle e suadente della Capitale, ma siccome è molto intelligente e coraggioso ha avuto l’intuizione giusta di trasferirsi a Berlino dove si mangia male ma la comunità artistica è viva e stimolante. In galleria sono passati come dicevo molti giovani ma anche personaggi tangenziali rispetto al mondo dell’arte, architetti come Arduino Cantafora dal lavoro enigmatico e prezioso anche quando tocca la pittura, oppure il talento magmatico del grande Alessandro Mendini (cui aggiungo volentieri la figlia Fulvia, dotata pittrice e donna molto simpatica), e poi il guru della psichedelia italiana Matteo Guarnaccia, i numerosi streeter, nostrani e non solo, tra cui spicca il nome di Zio Ziegler, talento e rivelazione delle ultime stagioni.
So che Colombo è un tipo geloso e possessivo, immagino però non si arrabbi se citerò tra i tanti due colleghi galleristi con i quali ho avuto e ho rapporti significativi, Enzo Cannaviello che sulla pittura ha sempre fatto un lavoro mostruoso di prima mano (se per un certo periodo ha collaborato con Daniele Galliano credo che il merito possa essere anche mio) e Giuseppe Lezzi, nuovo compagno di ventura capace di valutare al meglio le opere di artisti colti e raffinati quali Marco Petrus e Giovanni Frangi. Sono pure contento che insieme ci siamo ricordati di Andrea Chiesi, cui sono davvero legato anche per un lungo background comune, che torna a Milano dopo diversi anni, ne sono passati davvero tanti dalla mostra in corsoveneziaotto che era la galleria della mia grande amica Alessandra Passera.
Ecco, il pendolarismo lo ritengo uno dei caratteri condivisi da molti di quelli che vedrete qui, in questa festosa invasione di artisti a Milano. Pendolarismo vuol dire viaggio, spostamento, treni a qualsiasi orario, come dicevo all’inizio. Dunque tanti libri a tenerti compagnia in tutte quelle ore che, se unite, potrebbero dar luogo a mesi e anni passati tra una città e l’altra in una sorta di terra di nessuno. Mi sono così nutrito di letteratura milanese per afferrare meglio il senso di tanto amore: Dino Buzzati (cui la mostra è virtualmente dedicata) e Giorgio Scerbanenco, Luciano Bianciardi e Luca Doninelli, Giovanni Testori e Andrea De Carlo.
Ogni libro una storia e ogni storia qualcosa di me da raccontare a chi ne avrà voglia.

La città dei miracoli
(omaggio a Maurizio Sciaccaluga)

di Ivan Quaroni

Milano e l’arte. Gli artisti e Milano. Come si fa a riassumere in poche parole il rapporto tra queste due realtà senza infilarsi in una pletora di luoghi comuni e di banalità da guida turistica? La città è, in fondo, un condensato di luoghi comuni, una summa di concetti condivisi, d’immagini costantemente reiterate, come certe cose che, a forza di essere ripetute, ci danno l’impressione di essere vere. E il fatto è che sono anche vere. O meglio, erano vere, ma adesso no. Questa non è più, infatti, la Milano di Leonardo e degli Sforza, né la città severa e controriformista di San Carlo Borromeo e dell’iconografia dei Procaccini. Non è il teatro tragico della peste manzoniana, né l’urbe efficiente e neoclassica degli Asburgo. Quella di oggi è un’altra realtà, lontana tanto dalle dinamiche visioni futuriste, quanto dai silenti scorci periferici di Sironi. E se volete saperlo, non è nemmeno più la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, con buona pace del bar Giamaica, che esiste ancora, ma è diventato un ritrovo per turisti e avventori nostalgici di un’epoca trapassata. E nonostante le masse vocianti che affollano i locali durante l’happy hour, anche la Milano da bere degli anni Ottanta è niente più che un ricordo sbiadito, un’impressione sospesa tra le immagini dello spot dell’amaro Ramazzotti e le note di Birdland dei Weather Report.
Io che in questa città ci sono nato e cresciuto non so dire che cosa sia diventata. So, piuttosto, che cosa non è.
Nel suo rapporto con l’arte, ad esempio, è radicalmente differente dalla vicina Torino, dal suo snobismo culturale, ancora così avvinto dalle suggestioni poveriste e concettuali e così, tragicamente tetragono, salvo rare eccezioni, alla pittura. Ma Milano è soprattutto antitetica a Roma, alla sua grandeur salottiera e civettuola, che passa attraverso i filtri dei potentati politici, ecclesiastici e perfino nobiliari. Perché Roma è, come tutte le capitali, un centro d’immobilismo e conservazione, che riduce al minimo ogni fattore di rischio e tende a ribadire il successo, piuttosto che favorirlo. Con Napoli forma un asse di resistenza impenetrabile, che impedisce all’immigrazione artistica di trovare un terreno fertile per prosperare. A Bologna, invece, lo sappiamo tutti, non c’è proprio nulla, a parte una fiera in cui si consuma l’annuale, e in verità sempre più stanco, rito di rendez vous degli addetti ai lavori.
Intendiamoci, con tutte le dovute eccezioni, per quel che ne so, è sotto questo cielo plumbeo, sulle rive del naviglio, tra il Lambro e il Ticino, dentro e fuori i margini di questa pianura inurbata che si compiono i destini di molti artisti italiani. Come scriveva Maurizio Sciaccaluga, compianto animatore della scena artistica meneghina, “qui passa il mercato, convergono i grandi collezionisti, sono di casa le sole riviste che contano, e dunque, è qui che inizia la discesa, che si ferma il motore o che parte il viaggio”. Magari i semi e le ceneri, le nascite e le morti avvengono altrove, ma è qui che le storie giungono a una svolta, in questa immensa sala d’attesa, dove le code scorrono rapide e presto o tardi arriva il tuo turno.
Certo, Milano non è l’America, come cantavano i Timoria, ma è la cosa che più si avvicina all’utopica Land of Opportunities. Diceva Maurizio, che forse non è un’officina, un opificio, un laboratorio, ma per qualche strano motivo, è un posto di epifanie e di rivelazioni, dove “si può dare forma e peso specifico ai propri sogni e alle proprie speranze”.
Quel che è certo, e ne sono stato il testimone diretto, è che a Milano è fiorito il talento di molti artisti provenienti da tutta Italia. Sarà l’aria cosmopolita, sarà la prossimità con l’Europa transalpina, sarà che questa città è da sempre un crocevia di traffici, una sorta di fiera permanente per mercati d’ogni genere, un ponte tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, insomma una terra di mezzo, ma il fatto è che, proprio qui, convergono risorse, visioni e idee maturate altrove. Che qui, e non a Torino, a Roma o a Bologna, ogni tanto si compie un miracolo. Non è a causa di una qualche virtù magica della città, né della particolare lungimiranza della politica o dell’intellighènzia meneghine. Credo semplicemente che lo spirito pragmatico, un po’ sbrigativo, di Milano dia i suoi frutti. Le conoscenze si trasformano presto in occasioni professionali e i rapporti lavorativi sovente sfociano in amicizie durature. A me è capitato così. Molti degli artisti, dotati di talento e poche sostanze, ai quali ho consigliato di trasferirsi a Milano, anche a prezzo di strenui sacrifici, sono diventati miei amici. Persone come Giuliano Sale e Silvia Argiolas, che ho conosciuto a Firenze, durante la mostra dei finalisti del Premio Celeste, e con i quali si è creato un profondo legame affettivo, o come Vanni Cuoghi, espatriato genovese folgorato sulla via dell’arte nelle aule dell’Accademia di Brera e poi nelle sale della galleria di Luciano Inga Pin, che considero non solo un compagno d’armi, ma un fratello acquisito.
Qui dicevo – mi si perdoni la reiterazione, forse un po’ sentimentale, dell’avverbio di luogo – sempre secondo Sciaccaluga ci sono “le sole, uniche, obiettive, giuste e sacrosante leggi dell’evoluzione che l’arte possa darsi”. Perché nella città del business, anche l’arte corre veloce e sacrifica spesso le vecchie glorie sull’altare dell’ultima novità. Milano è generosa nel donare opportunità di successo, ma è tremendamente spietata e repentina nel revocarle. Il vero miracolo, semmai, è resistere alle mode del momento, non lasciarsi travolgere dalle tendenze di grido e imparare l’arte di resistere e perpetuarsi nel tempo. In verità, alla fine, solo pochi artisti sopravvivono agli scossoni e agli urti della storia, ma tutti hanno almeno una possibilità di partecipare a quel gioco feroce e crudele che chiamiamo arte.
Insomma, se non ce la fai qui, allora non puoi farcela in nessun’altra parte della penisola. Anche perché, dentro e fuori le due circonvallazioni che abbracciano il centro cittadino, sono disseminate, tra realtà effimere e consolidate, oltre duecento gallerie d’arte, più che in ogni altra città italiana.
In mezzo a questo marasma di sedi espositive, senza contare quelle istituzionali, le fondazioni pubbliche e private, le banche, le associazioni culturali e gli altri innumerevoli luoghi di fortuna deputati alla fruizione di opere d’arte, sono pochissime quelle che hanno un’identità, un’atmosfera o un profumo particolari.
Tra queste c’è senz’altro la galleria di Antonio Colombo, dove ho incontrato per la prima volta tanti bravi artisti e dove ho fatto decine di scoperte e di riscoperte interessanti. Nel corso di quasi vent’anni al civico quarantaquattro di via Solferino sono passate molte delle migliori promesse della pittura italiana. Nei suoi locali, a un passo dalla chiusa di Leonardo, dalla sede storica del Corriere della Sera e da Brera, all’ombra del nuovo skyline, che ha spazzato via l’immagine triste e un po’ paesana delle ex Varesine, si sono avvicendate, in verità, tante storie dell’arte. Da Mario Schifano a Marco Cingolani, da Matteo Guarnaccia ai Provos olandesi, da Moby a Daniel Johnston, dalla Nuova Figurazione all’Italian Newbrow, passando attraverso incursioni nell’arte concettuale (ma non troppo), fino ad arrivare all’arte fantastica statunitense e alla Kustom Kulture californiana. Infatti, anche se Milano non è l’America, Colombo è riuscito a portare in città anche un po’ della vivacità dell’arte contemporanea americana. Insomma, la galleria è stata (ed è tuttora) un luogo di gestazione fertile soprattutto per la pittura, ma non sono mancate le mostre di fotografia, scultura e design. L’idea di celebrare Milano nel bene e nel male, attraverso la visione agrodolce di artisti, architetti, designer e graffitisti è nata ai tavolini del bar vicino alla galleria, sotto la spinta, un po’ pretestuosa, dell’imminente Expo Universale. A noi serviva un’idea diversa, qualcosa che non avesse niente a che fare col cibo, tema principale della manifestazione, e che non si confondesse con la pletora di mostre a tema che di lì a breve ci avrebbe sommerso. Perciò, mentre prendeva lentamente forma quella che inizialmente chiamavamo Gran Milano e che poi Cingolani avrebbe brillantemente ribattezzato La famosa invasione degli artisti a Milano, è diventato chiaro che l’arte era l’unico nutrimento che c’interessava, l’ingrediente che mai sarebbe mancato alla nostra tavola.
In questa mostra c’è di tutto, il contributo di milanesi doc come gli architetti Alessandro Mendini e Arduino Cantafora e gli artisti Aldo Damioli, Giovanni Frangi e Paolo Ventura, quello di cittadini d’elezione come Tullio Pericoli, Marco Petrus e Massimo Giacon, di espatriati come Nicola Verlato e Andrea Salvino e di un wild bunch di artisti americani americani composto da Zio Ziegler, Ryan Heshka, Clayton Brothers, Esther Pearl Watson, Fred Stonhouse, Anthony Ausgang e Mark Todd.
Siano residenti o turisti, una cosa è certa: gli artisti sono gli unici in grado dirci qualcosa su Milano che ancora non sappiamo. Ma questa, è bene avvertire il lettore, non è una mostra basata su premesse rigorose, non propone alcuna tesi sociologica e, di certo, non piacerebbe a Okwui Enwezor. Questa è una mostra confusa e felice, sbagliata e vitale. Come qualsiasi esperienza che valga la pena di essere vissuta.

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